25 gennaio 2019
Piacevole e… non lo dico io ma gli stessi partecipanti, divertente. È stata la festa organizzata per la signora Fulvia, venerdì 25 gennaio alla bella, confortevole e tecnologicamente super attrezzata sala dell’Oratorio della SAMZ (Sant’Antonio Maria Zaccaria) la chiesa del quartiere.
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Oltre alla proiezione del video, gli intervenuti hanno avuto la possibilità di complimentarsi con la signora Fulvia. Ecco le foto scattate da alcuni partecipanti, alle quale ho apportato delle “modifiche”tecniche per esigenze di documentazione.
La signora Maria, la signora Fulvia e la signora Lucia.
Se vedom... elbor - Alias Ivo
La Maestra della scuola elementare del quartiere, l’ho sempre vista come una signora molto riservata, discreta, e “refrattaria” ai banali approcci sociali. Frequentatrice della Parrocchia e dell’ambiente che vi gravita attorno, della signora Fulvia Costa ho sempre avuto un po’ di soggezione.
Prima di sottoporle il desiderio di fare una chiacchierata con lei, per conoscere alcuni suoi ricordi di gioventù e poter videoregistrare la conversazione, ho chiesto a Don Gregorio, che la conosce da parecchio tempo, se a parer suo fosse opportuno proporle l’iniziativa.
Dopo avermi tranquillizzato che la mia soggezione non era certo dovuta ad un carattere chiuso della signora Fulvia, un sabato pomeriggio, poco prima della Messa delle 18:00, alla quale spesso assisto dalla panca dietro alla “sua”, mi sono avvicinato e le ho esposto il progetto.
Come aveva immaginato Don Gregorio, dopo un paio di chiarimenti – più che legittimi – ha accettato la proposta e mi ha lasciato il telefono per ricontattarla.
Una volta ricevuta la disponibilità anche dall’ottimo e tecnologicamente all’avanguardia cameraman Luigi Rossetti, video-maker di molti eventi parrocchiali, abbiamo combinato l’incontro.
Un ringraziamento speciale accompagnato da un dieci e lode, va fatto alla “povera” signora Fulvia, per aver sopportato le due valanghe umane che… dopo i “convenevoli” di circostanza, le hanno rivoluzionato la stanza scelta per le riprese.
- Tira su tutta la tapparella - si il tavolo è meglio se lo spostiamo più in là – dov’è una spina per il computer? – arrotola un po’ quel tappeto che metto il cavalletto. Ti puoi immaginare il trambusto provocatole.
Una volta posizionate le attrezzature, non è servito molto tempo, alla signora Fulvia, per sentirsi a suo agio, e farmici sentire, nella nostra prima reciproca… intervista.
Mi ero preparato un canovaccio che scorrevo sul computer, per ricordare date e argomenti da toccare, e fin dall’inizio, ho notato che la nostra novantacinquenne maestra… aveva già letto gli appunti ancor prima che le formulassi la domanda.
Oltre alla lucidità mi ha sorpreso la fluidità nel narrare aneddoti e ricordi, sia personali che storici, mi è piaciuto in particolare, notare che non ha voluto trattenere l’emotività, per esempio rivedendo alcuni oggetti che hanno fatto parte della sua vita lavorativa.
Le si è allargato il cuore vedendo il “TRE BUCHI” e… no l’ha nascosto.
Per tutta la conversazione, la allora novantacinquenne signora Fulvia è stata veloce e vivace nelle sue riflessioni, ed in un paio di passaggi, ha addirittura anticipato una mia considerazione con un sorriso. Divertente è stata la risposta pronta ed inequivocabile alla mia “maliziosa allusione” relativa ai rifugi antiaerei.
Simpatica è stata anche la reazione quando mi ha sentito leggere il testo di una canzone in dialetto milanese.
Montando il video, i fermi immagine mi hanno aiutato a capire quanto la superficiale impressione che mi ero fatto di quella signora, non corrispondessero alla signora Fulvia di quel pomeriggio.
Morale: Non sempre la riservatezza e la discrezione corrispondono all’indisponibilità. Nel caso della Nostra… signora Maestra Fulvia, in verità sono lezione di comportamento e scuola rettitudine, peculiarità oggi sempre più rare.
Alla fine della registrazione, abbiamo chiesto di poter riordinare la stanza. Cosa che abbiamo scrupolosamente eseguito sotto le sue direttive, pur capendo che… il lavoro avrebbe avuto bisogno di un ulteriore “aggiustamento” per esser fatto come si deve.
Maestra lo si è per sempre.
Partendo dal materiale realizzato dall'ottimo cameraman Luigi Rossetti (circa due ore di riprese) ho preparato un video, in due versioni: INTEGRALE, che dura 60 minuti, e la RIDOTTA che ne dura 40 di minuti.
Puoi scegliere quella che desideri vedere, cliccando sulle rispettive icone qui di seguito.
Buona visione. Se vedom… elbor - Ivo
La versione RIDOTTA, è quella proiettata il giorno 25 gennaio, presso la Parrocchia Sant’Antonio Maria Zaccaria, anella “Saletta” gentilmente offerta da Don Davide.
P.s. Mentre scrivevo questa introduzione, ho ricordato alcuni momenti del nostro quartiere, oggi trasformatosi, ed ho voluto raccontarli. Si trovano dopo i link ai video.
Se vuoi lasciare un commento sul video della chiacchierata con la signora Flora, sui miei ricordi, suggerire delle correzioni, completarli, o addirittura… e sarebbe bellissimo, se volessi aggiungerne di tuoi, ma non ti fossero sufficienti le 1.000 battute previste dalla finestra del messaggio, invia il tuo racconto a info@elioborgonovo.it
Sarà certamente ottimo materiale per un bel post, dedicato ai ricordi degli abitanti del quartiere Chiesa Rossa.
Ivo
L’ultima frontiera a Sud di Milano
Correva l’anno 1964/65. Ci eravamo trasferiti da poco qui… al Chiesa Rossa.
“Classico” quartiere di edilizia popolare, costruito durante gli anni del boom economico della fine degli anni Sessanta del secolo scorso.
Naturalmente in quegli anni non avevo ancora esplorato tutto il territorio che sarebbe diventato lo scenario di tante avventure della mia infanzia, assieme a tanti, tanti altri miei compagni gioco. Un territorio che a Nord iniziava dal “prato della Chiesetta” vicino ai resti di una stalla (oggi Biblioteca Comunale )nella quale “qualcuno” mi aveva detto che Napoleone aveva riparato il sui cavalli prima di entrare a Milano. La Chiesetta è la Chiesa Santa Maria la Rossa detta Chiesa Rossa, dalla quale il nome del quartiere, nella quale veniva celebrata la Messa domenicale e al pomeriggio andavamo alla lezione di Catechismo.
Ad occidente il quartiere iniziava a ridosso delle "case vecchie" (quelle davanti al Naviglio) e si estendeva fino allo “stradone”.
Lo stardone era la grande strada, NON ancora affiancata dai binari del tram, che per la maggior parte dell’inverno “scompariva” avvolta da una nebbia, che… si tagliava col coltello. Allora quasi per nulla trafficata, oggi l’inattraversabile se non al semaforo. Il suo nome è via dei Missaglia.
A Sud, al di là delle ultime case del quartiere c’erano… “i campi” dove in autunno inoltrato, stazionavano per qualche giorno le greggi di pecore, prima di proseguire verso sud.
Era il territorio detto Campi Santi – l’ho scoperto ora in internet. Prati incolti, sui quali… aaaanni dopo, è stato costruito il Bocciodromo a fianco dell’ultima casa, che in seguito ho scoperto chiamarsi Isola Anita. Ultimo avamposto di Milano prima che il borgo rurale di Grattosoglio fosse annesso alla CIttà.
Lippa 10 Backgammon 2
Noi bambini non usavamo i nomi delle vie, per indicare dove trovarsi. Ci si trovava “alla buca, alla cisterna allo stradone o al supermercato” ad esempio.
La prima, un’enorme cava forse servita per la costruzione del quartiere, si trovava dove oggi ci sono il nido, l’asilo e le scuole medie. Profonda qualche metro, piena di macerie e resti di lavorazioni edili, abitata da rane, lucertole e… topi – non di granaio.
Il livello dello stagno d’acqua putrida variava nelle stagioni a seconda delle piogge. Così come variava la lunghezza e la stabilità del pontile, che… prima tutti assieme costruivamo, raccattando legni qua e là, inchiodati con chiodi recuperati o “fregati” assieme agli ambiti martelli, dalle cassette dei ferri dei rispettivi padri, poi… ci disputandocene la proprietà con interminabili battaglie di sassi.
Alla fine della scuola, quando si potevano strappare i quaderni dell’anno appena trascorso, ci si trovava “alla cisterna”.
Un’area dismessa di un… forse deposito di carburante, dietro alla casa/serra del Lorenzini – mio compagno di classe, ma non scavezzacollo come me – nel quale scenario “postindustriale” forniva mille nascondigli, per mezzo dei quali si svolgevano bellissime e contese battaglie a bussolotti.
Era un periodo, che forse durava un mese. Bellissimo per noi, tragico per le/i custodi che si ritrovavano col lavoro raddopp/triplicato per pulire i cortili dai resti delle nostre battaglie.
Si cominciava in casa col fabbricare le munizioni. Prima si strappavano le pagine dal quaderno, delicatamente per avere il minor scarto possibile. Poi, si piegava la pagina in tre… se eri un “ghess” se avevi la doppietta lunga, in due, quindi con strisce di quaderno più larghe, se la cerbottana ti era stata comprata… dal cartolaio. Quindi un pollo.
La doppietta autoctona consisteva in due tubi di ottone del lampadario, uniti uno all’altro, ma distanziati parallelamente da due tappi di sughero posti all’estremità, con del nastro isolante.
La prima “arma” anche se bella, esteticamente, colorata o multi colpo, aveva il diametro della canna “grosso” che quindi necessitava di molto fiato, era meno precisa e… non potevano essere usati i bussolotti della doppietta autoctona. Come la mia.
Con la mia, dalla metà dal piazzale, con una “sparata/soffiata/buffada” media raggiungeva il muro di cinta della Cisterna, la lunghezza delle canne la rendeva era precisissima, ed il suo “calibro” permetteva l’opzione “salvataggio *¹”.
Alle quattro si poteva scendere in cortile, NON prima. Perché le custodi – allora le portinerie erano parecchie – se ti beccavano fuori orario, ti “accompagnavano” a casa sgridandoti per tutto il tragitto a voce alta, come gli ortolani alla chiusura del mercato. Monito per le altre madri dei tuoi compagni e certezza per te di trovare a casa, non tua madre, ma una “belva” scatenata che ti dava la… solita lezione.
La Mia, intanto che menava diceva: ti a dù, a du a du, fin che diventen disper! Che significa: te le do, a due a due, fino a quando diventano dispari. Tradotto,“una manica di botte”. Il “Montessori” dei poveri.
Arrivata l’ora si scendeva con "l’arma" già carica, le munizioni (i bussolotti già preparati) infilati nei capelli e/o infilzati uno all’altro, negli spazi vuoti tra canna e nastro adesivo.
La riserva era un bel mazzo di strisce di quaderno infilato nella cinta dei pantaloni, corti naturalmente – anche d’inverno.
Percorrendo il cortile per arrivare al luogo della battaglia, interrotta il giorno precedente, potevi o subire o sferrare delle imboscate ad altri combattenti in marcia, Generalmente dopo una breve scaramuccia ci si accordava per la battaglia quotidiana.
Inizialmente la parsimonia e la strategia di guerra ti portavano a risparmiare i bussolotti, o ad avere il tempo di arrotolarne di nuovi, ma col passare delle ore e per i continui spostamenti, spesso ti trovarti nella condizione (oggi schifosa a pensarci…) di raccattare un bussolotto leccato da chissà chi, dargli una ciucciata per rinforzargli la punta e calibrarlo (strapparlo per la misura della tua canna - salvataggio*¹) per poi spararlo contro il nemico. Era una questione di vita o di morte.
Una variante della battaglia di bussolotti era la caccia – di rane, lucertole, topi o gatti.
Coi cani no c’era da scherzare, c’erano ancora non pochi randagi ed erano pericolosi.
C’era poi il periodo dei carelotti e monopattini, questi solo autarchici. Non so come si apriva quella stagione, bastava che uno si presentasse in cortile col suo mezzo, che nei giorni successivi ne spuntavano decine, di varie fogge e design.
I più fortunati erano quelli che avevano i carelotti ben fatti, robusti, stabili, con gli sterzi che non ti facevano “raspare” le mani e con le ruote “rotanti”. In genere erano gli amici che avevano i papà muratori o… meglio ancora meccanici, professionisti che contribuivano a far avere ai propri figli i bolidi più belli ed invidiati.
Quelli… per i quali eri disposto a spingere per centinaia di metri, in cambio di qualche decina di metri alla guida di quella Ferrari. Il massimo del brivido era guidarla sotto i portici perché essendo piastrellati… in curva si sbandava. Immagina la reazione dei custodi e le nostre conseguenze.
Oltre ai cortili ed i vari luoghi di ritrovo, le decine e decine, certamente le centinaia, di bambini del Chiesa Rossa giocavano nelle strade interne del quartiere.
Le partite di pallone si svolgevano in strada, perché le custodi non le permettevo in cortile. Naturalmente.
La “procedura” era: quando arrivava qualcuno rimbalzando il SUO pallone, voleva dire che c’era una partita nell’aria. Il tipo salutava con un cenno della testa il compagno che riteneva più bravo o il più forte, il quale, se era impegnato in un altro gioco, magari con delle femmine (le baggiane) le abbandonava subito e… “braccetto sulle spalle” se ne andavano in cerca di altri compagni.
Posare il braccio sulla spalla di un tuo coetaneo era un segno di amicizie, di appartenenza reciproca e fedeltà. Un’abitudine che non sto più vedendo nei ragazzi, forse oggi sostituita con quella reciproca sberla di palmo di mani seguita dallo scontro dei pugni e dal pollice in su, tanto americano quanto spero presto… USA e getta.
A questi primi calciatori si aggiungevano gli amici e gli amici degli amici, e ben presto il codazzo di aspiranti Rivera o Mazzola raggiungevano le tre/quattro decine bambini.
Le baggiane erano escluse CATEGORICAMENTE dalle partite. Come la pensano oggi i mussulmani – con due emme come lo scriveva la Fallaci.
Arrivati sul campo, alla strada prescelta, (meglio se lontano dagli occhi delle madri) si formavano le squadre. Pari e dispari (bim bum bam) era la procedura che stabiliva chi tra i due capitani iniziali cominciava a scegliere i giocatori della propria squadra.
NON era detto che il proprietario del pallone fosse uno dei due capitani, anzi, raramente lo era, mentre spesso il padrone della palla veniva scelto verso la fine o per ultimo, per somma benevolenza di uno dei due più forti, o leader. Che comunque rimaneva un “ambita ” amicizia. Un criterio non molto differente da quello usato da molti di “noi” adulti ancora oggi.
Le squadre erano formate anche da 15 calciatori per parte, si “andava ai dieci (gol) e le riserve entravano dopo un infortunio o quando i più bravi/forti lo decidevano con un esplicito - vai fuori! Non vali un cxxxo.
Erano sempre loro anche a stabilire un fallo o un rigore, ed in caso di controversia la si risolveva ad insulti e spintoni.
Ma il gioco che più amavo era la lippa, forse perché la lunga preparazione aiutava a selezionare il numero di aventi diritto a giocare.
Prima si cercava nei locali pattumiera un manico di scopa – che allora erano di legno – gli si tagliava un pezzo di 15/20 cm circa e uno di 50/60. Al bastone piccolo lo si appuntiva alle estremità a mo’ di matita temperata, strusciandolo contro i muri, prima quelli più “rugosi” poi sui più fini. Una preparazione che durava per lo meno un giorno, compreso l’arrotondamento della mazza/misura.
Stabilite le squadre, col medesimo criterio usato per il football si sceglieva il campo di gioco, la strada. Le vie erano praticamente prive di auto posteggiate (i cortili interni avevano posti sufficienti per le poche auto degli inquilini… “ricchi”) quindi bastava sceglierne una che al centro della carreggiata si potesse tracciare con un mattone un cerchio, meglio attorno a un tombino con un leggero rilievo, per stabilirne la base, dalla quale veniva “lanciato” il lippino.
Appoggiato a terra, lo si batteva sulla punta che era rivolta verso gli avversari, per farlo rimbalzare in alto. La bravura consisteva nel colpirlo (al volo naturalmente) il più forte possibile per spedirlo tanto lontano da mettere in difficoltà l’avversario, sia nel prenderlo al volo, il che decretava la conquista della base, che la formulazione dell’offerta. Quando era a terra (ora non racconto tutte le regole) chi aveva effettuato il lancio chiedeva: - quanti me ne dai?
Intendendo il numero di lippini/misura ripetuti per arrivare alla base. Se non accettavi l’offerta, il giocatore avversario si chinava per contare, aggiungendo un numero ad ogni lippino steso sull’asfalto, sino al numero offerto o al raggiungimento della base.
Questo, determinava la conquista della base. Una specie di baseball dei poveri.
Come detto, per scendere in cortile a giocare bisognava aspettare l’orario. Dopo l’ora fatidica i cortili si riempivano di bambine che saltavano la corda, o giocavano a mondo, mentre i maschi con grossi mazzi di fugu giocavano a celo-manca o a muretto, oppure con una saccocciata di biglie a boccia/spanna o a galletto. Chi aveva un biglione di ferro aveva ottime possibilità di tornare a casa con due saccocce piene di biglie.
Si giocava a macchinine, sulla pista che giornalmente andava ritoccata, a nascondersi, a volte con le baggiane, anche ad elastico, o rialzo, ai quattro cantoni, o a ce l’hai.
Ecco… palla prigioniera era permessa. Forse perché era un gioco da baggiane.
Innumerevoli erano i giochi di cortile, tutti richiedevano abilità fisiche, astuzia e forza, ma nessuno più de… la cavallina la va la sfonda.
Quello era il grido di avvertimento che si diva, a rincorsa iniziata, agli avversari prima di assaltarli. Posizionati in fila, curvi a 90°, col capo infilato tra le gambe o sul fianco del compagno antistante, aspettavano e sopportavano l’atterraggio di tutta la squadra degli assaltanti (quelli che saltano). Dopo di ciò, lo sforzo doveva protrarsi sino a che l’arbitro, un compagno che con le spalle appoggiate al muro, le braccia abbassate e le mani a “conchiglia” teneva la testa del primo della fila degli assaltati, non aveva terminato di contare sino a dieci.
A quel punto… o un catastrofico crollo o lo sgroppamento virile degli assaltati decretava il cambio delle parti. Se in fase di “atterraggio” o durante il conteggio uno degli assaltanti poggiava, anche per un attimo, un piede/mano a terra, il cambio avveniva immediatamente.
È facile immaginare quanta determinazione ed irruenza mettessimo una volta diventati assaltanti. Atterravamo sulle schiene/teste dei “nemici” ora disposti in fila e curvi a 90° con tanta voglia di vendetta che non era raro esserne rimbalzati e cadere a terra, provocando la sconfitta anticipata e l’ira del resto dei compagni di squadra.
Non duravano molte ore questi “tornei”, ammaccature, lesioni e botte erano l’orologio fisiologico che decretava la fine del gioco.
Ho intitolato così questo capitolo sui giochi di cortile, riferendomi all’esperienza che ho avuto durante le scuole medie inferiori.
Per scelta di mia madre, che non finirò mai di ringraziare, le scuole medie le ho frequentate all’Umanitaria, una scuola sperimentale situata in centro Città, dietro al Palazzo di Giustizia.
La scelta di una scuola sperimentale, seppur fatta inconsapevolmente, mi ha permesso di affrontare meglio il problema di rendimento che avevo avuto sin dalla prima elementare.
Oltre a ciò, essendo una scuola del “centro” era frequentata per la maggior parte da figli di residenti… appunto nel centro Città, quindi economicamente benestanti. Moooolto più di me.
La differente estrazione sociale, che avevo sì sentito, ma della quale non ne avevo sofferto più di tanto, ha avuto la sua “rivincita” la volta che l’insegnante ha dato come tema, il compito di descrivere come trascorrevamo il nostro tempo libero.
In quel tema ho naturalmente narrato di alcuni dei giochi sopra descritti, ovviamente lasciandomi prendere la mano dalla fantasia e dall’entusiasmo ed omettendo le situazioni meno idilliache, questo perché conoscevo i passatempi (casalinghi quando non addirittura da tavolo) dei miei compagni, che avevo sperimentato a qualche festa.
È stata la prima volta che l’insegnante mi ha chiesto di leggere il mio tema ai compagni e il primo ed unico otto. Dopo la lettura, molto apprezzata anche dai compagni di classe, sono stato circondato dai alcuni di loro che chiedevano chiarimenti sui giochi narrati, così differenti dai loro Backgammon dama/scacchi, costruzioni varie e futuriste etc. etc..
Ad una festa di una compagna di classe che abitava in via della Moscova, ho scoperto le avventure e le nudità di Valentina, di Guido Crepax, nella stanza di un altro compagno di classe, che abitava alla Torre Velasca, c’era il giradischi HFI, la batteria e… un flipper, uguale a quello che noi avevamo, ma all’oratorio.
Nonostante ciò, considerata la curiosità e la voglia che mostravano quei compagni di classe, di giocare coi miei amici di cortile una partita alla lippa, il titolo giusto di questo post mi è sembrato “Lippa 10 Backgammon 2”.
Nonni tuttofare
Nel quartiere, nel mese di dicembre, ma forse anche prima, c’erano gli “zampognai” che suonavano le musiche natalizie, per essere poi ricompensati dal lancio di qualche moneta dal balcone.
Visto “l’isolamento” del nuovo quartiere, ciclicamente venivano vari ambulanti, come accadeva nei paesi sperduti della pianura Padana, suppongo.
L’ombrelat, el moletta o el strascee, ognuno col proprio urlo “filastroccato” catturavano l’attenzione delle donne, che spedivano i propri figli con l’ombrell, el cortell (-fai attenzione di non cadere e tagliarti. - Ma se è da affilare, pensavo io) o… a chiedere quanto, quell’uomo malvestito in sella di un tre ruote già carico di cianfrusaglie, voleva per ciappà i cattanaj giò in cantina.
Naturalmente non erano quegli ambulanti “milanesoni” del primo Decennio del Secolo scorso, ed i loro richiami non erano in milanese. Erano l’ombrellaio, l’arrotino o lo “stracciaio”(Straccivendolo o cenciaiolo) ed io non parlavo il dialetto.
Il quartiere era popolato per la maggior parte da famiglie monoreddito, molte delle quali formate da genitori meridionali emigrati, con tre o quattro figli (di media) nati a Milano, dove in alcuni casi c’era anche una nonna/nonno, che… rimasto, solo aveva seguito il figlio/figlia al Nord.
Di questi nonni, con una pronuncia molto “terrona” – e lo dico con affetto – ricordo il nonno di una amica che faceva il calzolaio… in casa. Ricordo di uno che tagliava i capelli a domicilio, che era il nonno di un mio compagno di classe, mentre erano innumerevoli le nonne, che facevano riparazioni di cucito, quando addirittura facevano le sarte. Stiratrici ed infermiere per le punture o le medicazioni (non diplomate… quasi certamente – ma nessuno lo chiedeva. Era sufficiente la raccomandazione della signora Concetta). Attività “secondarie” di grande vantaggio economico, indispensabili per lo sviluppo dei rapporti sociali in quartiere.
C’è stato un periodo che alcune delle mamme dei miei amici, a volte coi figli più grandi, anche la mia aveva provato ma non aveva la pazienza ed il carattere adatto a sopportare quello sfruttamento, per arrotondare il bilancio, avevano accettato di fare il… lavoro a casa.
Andava così. Un tipo che era stato presentato da un’altra mamma lavorante, portava un’ enorme quantità di “pezzi” di un prodotto da assemblare, potevano essere scheletri di ombrelli ai quali applicare il telo impermeabile, grembiuli da completare con i lacci di sostegno e chiusura etc. etc. e la donna/famiglia provvedeva all’assemblaggio nel più breve tempo possibile. Quando il tipo tornava a prendere il lavoro finito per lasciarne dell’altro. Dopo… forse un mese, pagava il lavoro ritirato (una miseria in due parole: cottimo – in nero).
A proposito di famiglie meridionali… numerose. Ricordo, quando siamo arrivati col funzionario dell’IACP Istituto Autonomo Case Popolari, davanti alla torre (altissimaaaaaaa)… no… è una storia moto lunga. La ritrovi se vuoi alla fine del racconto o se preferisci leggerla ora, clicca qui.
Il mostro… per me buono
Un accenno vorrei farlo relativamente a quella enorme struttura, che per anni ed anni ha mostrificato una parte del quartiere. Mi riferisco alla struttura in cemento armato, incompiuta, nella quale oggi ci sono ubicati il Comune e il teatro Ringhiera, gli ambulatori sociali, la Farmacia, il Supermercato e il negozio dei cinesi.
Quando lo stavano costruendo ci avevano detto che sarebbe diventato un Supermercato, ed è così che noi ragazzini, abbiamo cominciato a chiamarlo “il supermercato”.
Oltrepassate le protezioni di cinta, ormai ridotte a un colabrodo, tra le sue mura di cemento armato “crudo”, in mezzo ai resti delle lavorazioni edili, ci andavamo a giocare o a nasconderci le sigarette, prima di tornare a casa.
¿?Può essere che si compravamo sfuse?¿ Ricordo che per mio padre… le compravo sfuse. Il tabaccaio me le dava in una apposita bustina, ma non ricordo se quando ho cominciato a fumare – 15/16 anni - venivano vendute così.
Pochi di noi usavano ancora la tromba dell’ascensore o la cantina, erano nascondigli tanto scontati che quando restavi senza siga, erano i primi ad essere setacciati.
Per alcuni anni, “il supermercato” era diventato il “supermercato” dove alcuni giovani del quartiere, e non, andavano a comprare o a drogarsi con le prime, pericolosissime droghe.
Io di quel “mostro” non ho un cattivo ricordo. È stato lo scenario di tanti pomeriggi passati a giocare e nasconderci coi miei amici, la “cassaforte” delle mie prime sigarette ed in particolare, il ricordo di due aneddoti… all’antitesi.
Il primo. Invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia.
Non ricordo quanti anni avessimo, potevano essere 11, 12, massimo tredici,
Col mio amico, (di quelli da braccio sulle spalle) Cla. Spe. (potrei anche scrivere nome e cognome vista la tenerezza della storia, ma… ti lascio nel mistero) che abitava in Boifava dietro al bar “della Tina e del Jonni”, avevamo conosciuto e fatto amicizia con due bambine/ragazzine del cortile, della quale non ricordo nemmeno il nome, (me ne invento due) che avevamo convinte a seguirci nel “supermercato” per…
Una volta entrati, impacciati ma decisi nel proposito, l’abbiamo proposto alle fanciulle, le quali, imbarazzate, ma curiose quanto noi, dopo qualche risolino hanno accettato.
Abbiamo trovato, in quello squallore di edilizia incompiuta il posto meno peggio.
Io con Luisa appoggiata alla parete e Cla. Dall’altra parte della stessa parete con Yyyyy, dopo aver preso fiato… ci siamo dati il via per appoggiare le nostre labbra a quelle delle rispettive fanciulle.
Naturalmente NON si è trattato di un bacio “alla francese”.
Dopo qualche secondo di sfregamento di labbra e torsione delle teste, con gli occhi chiusi, ma ad intermittenza, al distacco (non ricordo chi dei due…) rimanendo ognuno dalla proprio lato della parete, ci siamo chiesti:
- Oh.. Cla., com’è stato… con la tua?
- Bohhh… non so.
- Perché non è capace?
- Non so… Vuoi provarla tu?
Dal mio lato della parete, a voce bassa:
- Oh… Luisa, vuoi provare con Cla.?
- Bohhh…
- Oh… Cla. Ma Antonella ci sta a fare scambio?
- Dice di sì.
Ok… cambiamo.
Luisa ed Antonella si sono scambiate l’appoggio alla parete contemporaneamente all’appoggio alle labbra dei due Casanova del Chiesa Rossa, ma… il risultato non è cambiato.
Morale: invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia.
Il secondo. Col cuore in gol
Anche qui dovevo avere la stessa età del precedente aneddoto.
Era inverno, freddo e nebbioso, ma non aveva nessuna importanza per quella banda di ragazzini che scorrazzava e schiamazzava nei cortili, di cui facevo parte.
A qualcuno è venuto in mente di fare lo scherzo della corda.
Consisteva nell’andare sulla via Boifava, nel tratto che sta davanti alla scala “dolce” che porta agli Uffici del Comune.
C’era già lo spartitraffico. Da questo strappavamo tanti mazzetti d’erba che stendevamo in fila e diagonalmente rispetto il senso di marcia della carreggiata.
Poi ci posizionavamo, uno dietro l’altro, tre o quattro di qua, ed altrettanti di là dalla strada, un poco ricurvi, con le braccia abbassate, come se tenessimo l’estremità di quella che all’automobilista intento alla guida nella nebbia, vedeva come una grossa fune stesa sull’asfalto.
Al suo arrivo, mimando il movimento di issare la fune, accompagnato da un poderoso… “ehhh issaa!” fingevamo di sollevarla quando il povero si trovava a pochi metri.
Tutti facevano delle inchiodate da paura, alcuni con addirittura un pericolosa sbandata, per via dell’asfalto reso scivoloso per la nebbia fitta. Mentre scappavamo divertiti e sghignazzanti, immaginavamo i sudori freddi di quel povero (facilmente papà) che stava tornando a casa.
Quando il malcapitato si era ripreso dallo spavento, non vedendo più nessuno, incazzato nero, non poteva far altro che andarsene.
Allora noi tornavamo, aggiustavamo la “falsa corda”, ci mettevamo in posizione ed aspettavamo la prossima vittima.
Naturalmente i più “coraggiosi” erano quelli che, dopo la frenata, aspettavano sino all’ultimo prima di scappare. Io non sono mai stato un “eroe” così non ho mai avuto grandi patemi d’animo nelle mie fughe.
Mi mettevo sempre a destra rispetto il senso di marcia dell’auto, primo perché raramente l’autista scendeva dopo lo spavento, per accennare una rincorsa, e secondo perché l’entrata del “supermercato” più era vicina e nessuno aveva mai abbandonato l’auto per inseguire uno di quei delinquentelli.
Stare a sinistra i rischi erano maggiori, anche per il minor numero di nascondigli.
Una volta… quella volta, il tipo ha frenato prontamente, è sceso dalla macchina, ha imprecato con rabbia, è girato davanti alla macchina, VERSO DESTRA, e... Cxxxoooo mi ha puntato. Era alto, giovane, atletico ed incazzato come un negro ed ha iniziato ad inseguirmi. Mi sembrava uno di quelli dei film dell’orrore. Ero spaventato, correvo come un fulmine ma questo non mollava, anche dopo essere entrato nel “suoermercato” questo… gridando come un ossesso, mi seguiva. Saltava gli ostacoli, e zigzagava in quel terreno a lui sconosciuto, velocemente e bene quanto me.
Ho percorso quasi al buio metà “supermercato” prima di sentirlo rallentare. Mi sono fermato e nascosto. Lui era lì, fermo, a una quindicina di metri da me che mi cercava nel buio. Io vedevo a malapena la sua sagoma, disegnata dalla luce dei lampioni della strada, ma sentivo perfettamente la rabbia che gli spezzava l’intimidazione: vieni fuori… bastardo che t’uccido.
Immobile, col fiato sospeso, con la paura che vedesse la mia condensa o sentisse il mio affanno, ho aspettato che tornasse in macchina e se ne andasse, prima di uscire dal nascondiglio.
Ceruleo in viso, più della nebbia di allora alle 17:30 naturalmente sono stato dai miei da una risata generale, seguita da ogni tipo di apprezzamento, gesto e battuta.
Comunque… quella sera non abbiamo continuato a giocare a “ehhh issa!” e quella per me è stata l’ultima volta.
Come avrai capito fin da bambino ho avuto più familiarità col cortile che con la squola. Ops… scuola. Ma voglio provare a ricordare anche qualche aneddoto scolastico.
L'alunno modello
Guardando le foto di quarta, quinta e quinta bis, in effetti devo riconoscere che non ero un bel bambino. Cioè, non ero un BRUTTO bambino, ma nemmeno bello/interessante, uno di quelli che ispirano simpatia alla maestra, e questo, unito alle mie scarse prestazioni scolastiche non mi facilitava.
Non ero nemmeno molto simpatico, devo supporre. È ragionevole pensarlo, se ricordo la proprietà di linguaggio, la profondità dei discorsi ed in genere la preparazione culturale che avevo.
Se poi consideriamo che soffrivo di un bel complesso di colpa, per non saper leggere dignitosamente (ho scoperto a 40anni che era/è DISLESSIA) il quale spesso mi faceva rifugiare in atteggiamenti scontrosi, maleducati o…
W il Direttore conservatore Si sa… quando c’è la supplente gli alunni si prendono qualche libertà in più rispetto alla disciplina imposta dalla maestra. Quella volta, la supplente era una giovane ragazza, carina di aspetto e moderna nell’abbigliamento. Caciaroni ed indisciplinati molti di noi erano già stati ripresi della povera, che aggirandosi tra i banchi, mostrava di essere sul punto di perdere il controllo della situazione. A quella sfilza di stupidaggini e spiritosaggini avevo contributo anch’io.
In risposta alla poca educazione nei suoi confronti, la giovane, ad un certo punto ha voluto punirci, ed alzando la voce ha ordinato: - prendete la cartella, tirate fuori il quaderno, che facciamo un dettato.
Per nulla spaventato ho abbassato il braccio destro, preso la maniglia della cartella, che era in piedi, vicino alle gambe del tavolo e l’ho sollevata di slancio… per appoggiarla sul banco. Tutto ciò mentre sorridevo divertito al compagno di banco della fila di sinistra.
Non mi sono accorto che quel brusco sollevamento della cartella, aveva anche sollevato la gonna della maestra, la quale, incastratasi nella chiusura della cartella, non riusciva a liberarla. Provocando la sguaiata risata di mezza classe. Eccetto me, non guardandola non capivo cosa stesse succedendo.
Solo quando mi sono voltato ed ho incrociato lo sguardo della maestra ho capito cosa avevo fatto. Lei, vedendo la mia goffa faccia da luna piena, alla quale per di più, è scappato un sorriso, ha strappato la gonna dalla chiusura, ha chiamato il bidello per farlo restare con la classe, e con un mio orecchio in mano, mi ha portato in direzione.
Lì, ha spiegato al Direttore (un uomo non alto, anzi bassottello, cicciottello, vestito sempre di scuro, con la punta delle scarpe – consumate e vecchie - che guardava all’insù) quello che le avevo combinato. Questi, dopo averla ascoltata l’ha pregata di uscire ed ha chiesto la mia versione.
Io… probabilmente piangendo, ho spiegato l’incidente. Non ricordo se ero presente mentre sentenziava la questione (mi pare improbabile) o se l’ho immaginato in seguito, sta di fatto che la povera supplente è stata sgridata perché, a parere del Direttore “l’incidente” non sarebbe accaduto se… lei avesse portato una gonna più LUNGA.
Nota. Il Direttore era basso, vestito di scuro ed aveva le scarpe vecchie e poco pulite, con la punta che guardava in sù...
Condannato ai canti forzati. Una volta, il maestro di musica, la facevamo nella palestra e cantavamo tra l’atro “L’inno alla gioia” che ancor oggi a volte canto mente pedalo: Salve o gioia figlia della luce… per creare in me un duraturo legame col canto… mi ha legato.
Non è come può sembrare, ne aveva tutte le ragioni. Mentre i compagni erano attenti alla lezione e cantavano da lui diretti, io mi chinavo per nascondermi e poter giocare a figu a “lettera” col compagno che avevo a fianco. “Lettera” era quel gioco che si faceva con un sostanzioso mazzo di figurine dei calciatori tenute in mano, ma “coperte”. Se ne girava una a testa, per vedere il nome posto sotto la foto del calciatore e leggerne la prima lettera. Es. A Aristide Guarneri - S Sandro Mazzola e via così, ammucchiandole sino quando due figurine consecutive iniziavano con la stessa lettera: G Gianni Rivera - G Giacinto Facchetti. A quel punto chi aveva girato la seconda G prendeva tutte le figu sino a quel punto giocate.
Dopo un primo, un secondo e forze anche un terzo richiamo, il maestro di musica, stanco di richiamarmi, mi si è avvicinato, ha tolto la cintura dai pantaloni e… nel silenzio attonito dei compagni che lo/ci guardavano, la paura di subire una punizione ben peggiore*² si è trasformata in gioia, quando ho capito che la cintura serviva solo a legare il mio busto allo schienale della panca, in modo che non mi nascondessi dietro i compagni e con loro cantassi… Salve o gioia figlia della luce, Dea dei carmi, (cavolo… ho sempre cantato - Dea dei campi) Dea dei fior! Il tuo genio ci conduce per sentieri di splendor. Il tuo raggio asciuga il pianto, sperde l'ira e fugge il duol! Vien! sorridi a noi d'accanto Primogenita del Sol!
Devo dire che alla fine il piacere del canto, anche se solo quello sotto la doccia, quel maestro me l’ha trasmesso. Missione compiuta.
*² Peggiore. A quei tempi le punizioni che i maestri infliggevano erano ben peggiori, chiedilo a Fulvio Ancellotti… di farti raccontare qual’era la preferita del maestro Rabasco.
Una volta, in seconda elementare, per schernirmi di fronte a tutta la classe, mi è stato messo in testa un cappello a cono blu, con appiccicate le orecchie d’asino dipinte, per punirmi perché leggevo male e non riprendevo (mai) la lettura dal punto nel quale il compagno precedente aveva terminato.
Mia madre si è accorta della punizione, perché ha notato che avevo un po’ di tempera blu nelle pieghe delle orecchie. Dopo aver tergiversato ho “confessato”. Quella fxxxxa di pxxxxxa della maestra, mi aveva dipinto la punta delle orecchie di blu per non rovinare la composizione estetica della punizione. Bisogna dire che aveva senso artistico.
Poesia a singhiozzo. La faccio breve, era la poesia che NON avevi studiato ed imparavi quando eri interrogato.
Allora le maestre davano da studiare le poesie a memoria! La mia, sapendo chi studiava e chi no, interrogava partendo dai più asini. Secondo te a quale gruppo appartenevo?
La maestra chiamava l’alunno da interrogare alla cattedra: Ciccatello. Quello si posizionava, mani dietro la schiena, lei diceva, comincia.
Eran trecento… mmmm hemm. Al secondo tentennamento un perentorio QUATTRO!!! A posto! sanciva la fine dell’interrogazione.
Mangialetti. Quello si posizionava, mani dietro la schiena, lei diceva, comincia.
Eran trecento, eran giovani… mmmm hemm. Secondo tentennamento. QUATTRO!!! A posto!
Scagliarini. Posizione, mani dietro la schiena. Comincia. Eran trecento, eran giovai e forti… mmmm hemm. Tentennamento. QUATTRO!!! A posto!
Borgonovo. Tutto come sopra, Eran trecento, eran giovai e forti e sono morti… mmmm hemm. Con loro è morta anche la mia passione per la poesia.
Con quest’ultimo episodio di amore per la scuola termino questo lungo racconto, ringraziando ancora una volta la signora Maestra Costa, oggi signora Fulvia per avermi fatto tornare alla mente tanti ricordi d’infanzia.
Qui di seguito inserisco le foto di gruppo della classe relative alla seconda elementare - fatta in via Monte Velino e quelle relative agli anni di frequenza alla San Giacomo.
La maestra - tratta dalla foto dell'anno precedente
Il maestro Rabasco
Se vedom… elbor - Ivo
Ok… stavo dicendo a proposito delle famiglie meridionali numerose…
Ricordo che quando siamo arrivati col funzionario dell’Istituto Case Popolari, davanti alla torre (altissimaaaaaaa)nella quale saremmo venuti ad abitare, essendo tra i primi inquilini, ci era stata data la possibilità di scegliere l’appartamento.
Reduci da un litigio finito in tribunale con la vicina del piano sotto, in via del Turchino, papà vedendo che sotto al primo piano c’erano i box, ha detto: quello, indicando il primo piano, così non abbiamo problemi con nessuno.
Una settimana dopo aver traslocato nella nostra bella, nuova, “vuota” casa (i mobili che arredavano i due microscopici locali nei tre bei locali scomparivano) io e la mamma, eravamo affacciati al balcone della cucina, che guardavamo i vialetti in terra calpestata che tagliavano la spianata di terra “sgarruppata” priva dei cordoli di delimitazione, senza né alberi né lampioni, che ci divideva dalle case antistanti.
Ad un certo punto vediamo arrivare nello spiazzo di fronte all’entrata della nostra torre, un camion zeppo di mobilio e subito dopo un auto. Quando si sono aperte le porte dei due mezzi, sono scesi uno, due, tre. E quattro persone. Ehhh, cinque, sei. Si è aperta l’altra porta dell’auto, e sono scese… sette e otto, questa con un bambina per mano. Alla fine, la decima persona teneva un bambino/na in braccio. TOTALE UNDICI nuovi inquilini.
I quali… come quando siamo arrivati, fermatisi ai piedi della torre, hanno puntano il naso verso il tetto e percorso tutto l’edificio verso il basso, alla ricerca del balcone del loro nuovo e bell’appartamento.
Ad uno ad uno, gli undici sorrisi sono scomparsi sotto i nostri piedi, imbucando il sottoscala, per riapparire pochi istanti dopo, sottoforma di vocio di gioia e meraviglia, sulle nostre teste. La famiglia Liotta stava prendendo possesso del suo nuovo appartamento al secondo piano della… nostra torre.
In quel momento, ci siamo sentiti come i tedeschi il giorno del D-day. Con la differenza che quel “vocio di gioia e meraviglia” sono stati gli ultimi “rumori” che la famiglia Liotta, in 40anni di convivenza condominiale, ci ha fatto sentire.
Abbiamo avuto sopra la testa ona famiglia de terroni formata da due genitori e nove figli, con la quale NON abbiamo MAI avuto un minimo diverbio, anzi… oltre ad essere, sia io che mio fratello, amici dei figli coetanei, mia madre a la… signoraaaa (purtroppo non ricordo il nome) erano diventate amiche. Ricordo che “la mamma dei Liotta” non perdeva l’occasione per offrirci abbondanti assaggi delle specialità calabresi che preparava, e con mia madre valutava le medicine o i referti medici.
Ora al posto dei Liotta è arrivata, una giovane coppia, che anch’essa è discreta e silenziosa, anche perché… è per tutto il giorno fuori casa.
Ok… finito. Se vedom… ancamò elbor - Ivo
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