Luglio 2015
È stato al Barbato, quando sono andato a casa sua a fotografare i quadri di papà, di sua proprietà, che… visto il tempo trascorso dalla mia richiesta al Roberto Marelli, per avere ...
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... l’autorizzazione di pubblicare un suo articolo dove stai leggendo, ho chiesto al Tullio, se l’uso della mail, avrebbe potuto infastidire il Marelli, magari… per “l’anonimità” del mezzo telematico. Mi sono sentito rispondere: col Marelli?? ma il Roberto è uno di noi, l’è on milanes e poi col computer l’è minga tròpp fòrt, anca a lù, ghe pias pussee la carta e la penna. Aspetta e vedrai che ti risponde. E infatti… eccomi qua a proporti un bell’articolo, “Faccia de giuli” che il Roberto Marelli - pagina facebook - mi ha detto farà parte del libro che sta finendo di preparare e del quale mi farà sapere titolo ed editore, appena stampato.
Anch’io ho usato el giuli. Quando, dai quattro agli otto anni, venivo (felicemente) parcheggiato dai miei nonni paterni, per passare l’estate nella loro casa di campagna. Ad Albagnano, un minuscolo paesino a 1,5 km da Bee, (Intra, Pallanza, Bee - provincia di Verbania) in una umile casetta, con due camere da letto al primo piano, la cucina e la sala al piano terra e Il bagno sul retro. Fuori… del minuscolo cortiletto, cintato ad altezza mezzo busto, nel quale scorrazzavo, giocavo a palla e allestivo infinite battaglie tra indiani e cauboi, sparsi su territori sterminati. Sì, “sterminati”, perché allora quel cortiletto mi sembrava davvero… sterminato.
Buona lettura. elbor
Ps. El giuli… cosa c’entra col paesino, la casetta e i cowboy? C’entra, c’entra, perché allora, “cowboy” si scriveva così: cauboi.
Brandelli di Milanesità
Faccia de Giuli
Tratto da “La Zona Milano” Aprile 2015
di Roberto Marelli
Il detto risale a fine Ottocento e a Milano era usato per appellare ironicamente le persone che erano soggette a rapidi voltafaccia, oppure per definire in modo ridanciano coloro che esibivano un bel faccione rubicondo.
Giuli era un modo elegante per indicare il mitico vaso da notte in porcellana, e veniva tenuto nella giuliera, altro modo elegante per definire il comodino nelle case signorili. In tempi in cui le case erano sprovviste di servizi igienici, l’orinari era un elemento indispensabile onde evitare di prendersi un malanno se per caso, di notte, ci si doveva alzare per impellenti bisogni fisiologici. Tenuto in gran conto in ogni casa, ben chiuso nel ciffon (comodino), poteva essere, a seconda delle condizioni economiche di chi lo usava: di ferro smaltato, di terraglia o di porcellana; ed è appunto quest’ultima, o meglio da chi la produceva, che nacque il modo di dire Giuli.
Ma procediamo con ordine: siamo nella Milano del 1870 e da Nyon (caratteristica cittadine ubicata nei pressi del lago di Ginevra, famosa per i suoi vigneti e le sue porcellane), Giunse da noi Jules Richerd; nel rione di San Cristoforo, lungo il Naviglio Grande, rivelò una piccola fabbrica di ceramiche de un certo Carlo Tinelli, dando inizio al suo impero, condiviso più tardi con il nobile toscano Carlo Benedetto Ginori (erede di un’antica famiglia fiorentina di industriali specializzati nella produzione di porcellane dure), portando nelle case di tutto il mondo le preziosissime porcellane milanesi. Ma prima di arrivare sulle tavole, la produzione del scior Giuli era dedicata prevalentemente ai vasi da notte di porcellana, bianchissima e con artistiche decorazioni: fiorellini celesti per lui, delicate roselline per lei in auge come regalo di nozze, in cofanetti a forma di ciffonin. Riempiti di spumante venivano inaugurati, prima del pranzo nuziale, con un allegro cin-cin di lunga vita e felicità per i novelli sposi.
Possederne uno significava appartenere ad una categoria privilegiata, giudicata tale da coloro che al mattino facevano la fila per svuotarlo nell’unico cesso in fondo alla ringhiera. La qualità del vaso da notte diede vita alla escalation economica – come si direbbe oggi - dell’intrapprendente svizzero divenuto un personaggio popolarissimo nella Milano del tempo e, ciò che produceva, entrò nella leggenda col suo nome milanesizzato: Giuli! I meneghini ne facevano spesso riferimento, inventando colorite espressioni: Hoo compràa on Giuli, voo a svojà el Giuli, faccia de Giuli e, se erano colti da violenti coliche: Hoo passaa tutta la nott in compagnia del Giuli!
Durante uno dei miei incontro sulle tradizioni milanesi e lombarde dove, tra l’altro, spiegavo l’origine della parola Giuli, venni avvicinato da un’elegante signora non più giovane, che mi ringraziò per averle aperto gli occhi su una faccenda di famiglia; mi disse: Dopo aver ascoltato la storia del Giuli, finalmente ho capito perché mi nonno, quando ero piccina continuava a ripetere a mio padre e mia madre, che era in dolce attesa di mio fratello: Se è un maschio, guai a voi se gli mettete nome Giulio! Finché io sarò al mondo, in casa mia nessuno si chiamerà Giulio! Altrimenti vi diseredo!
E se ne andò contenta di aver risolto il mistero che la incuriosiva tanto.
Ormai, quasi più nessuno si ricorda cosa è el Giuli e il bellissimo nome Giulio, portato dal fondatore dell’Impero romano e da ben otto santi, oggi è vissuto con naturalezza.
Se la pitanza l’è bona, vegni a colazion.
Si racconta che una simpatica vedovella, non trovando il coraggio di dichiarare le sue vere intenzioni a uno scapolone vicino di ringhiera, cioè unire le proprie solitudini, cercava di prenderlo per la gola: Ch’el vegna a colazion in de mi, lù l’è on omm, l’è minga pratigh in cusina, el finirà col rovinasse l stomegh!
Dai oggi, dai domani, l’uomo al quale l’avvenente vedovella non dispiaceva, un bel giorno rispose con evidente doppio senso: Vist che la pitanza l’è bona, vegni a colazion! Pitanza è il significato spagnolo di pietanza, ossia, vivanda preparata per un posto; arcaicamente sempre in Spagna, significava anche piedad (pità), ed era il cibo straordinario che si dava ai monaci in occasioni particolari.
Pietro Madini lo indica come un compenso dato ai sacerdoti al rito funebre ai cristiani di Toledo; l’usanza, ci fa sapere lo studioso, fu portata a Milano durante la dominazione spagnola, ma ai meneghini la pedad o pitanza, pagata per funzione religiosa, invece della pietà, suggerì l’idea di un buon boccone supplementare intascato dai preti; perciò la pitanza divenne il companatico, cioè qualcosa in più della solita minestra accompagnata da un pezzo di pane.
Colazion, invece, deriva da collectio (raccolta) e lectionis (lettura) che unite formano la parola colletiones, come erano chiamate, sempre secondo il Madini, le letture in comune che si facevano, e ancora si fanno, durante i pasti nei conventi. Nel nostro dialetto colletiones divenne coezion e da allora indica il pasto di mezzogiorno.
Portà la condizion
Rispondendo a un gruppo di amici che lo invitava a fà ona baraccada in un’osteria fuori porta, un tale disse: Podi minga vegnì, porti la condizion per la mia miee.
Un tempo portà la condizion significava essere in lutto. Se era un lutto grave, ci spiega il Cherubini – Bisogna avere il vestiario di colore nero e tutto di lana. La mezza condizion, ossia il lutto leggero, dice sempre il Cherubini – da noi consiste nell’ave indosso alcun segno bruno, e nell’indossar le donne abito nero di seta.
Oggi in questa società di zapping facile dove tutti i valori sono bruciati nello spazio di un secondo, la cosa potrà apparire ridicola, ma ancora negli anni sessanta, del secolo scorso, capitava di vedere uomini con una larga fascia nera cucita sulla manica della giacca, o un bottone nero all’occhiello; mentre le donne indossavano abito e calze nere, oggi di gran moda, ma un tempo portate solo in quelle tristi circostanze.
Nell’antica Roma, come ci spiega il Madini, essere sub-condicione significava rimanere appartati, non frequentare luoghi pubblici, teatri, vestire dimessamente e lasciarsi crescere la barba. La frase “porta la condizion” la ritroviamo anche in una canzone dal titolo El pover Luisin che narra di un episodio accoduto durante la terza guerra d’Indipendenza (1866) il malinconico canto, fa parte di una commedia di Giovanni Duroni, El sciopero di madaminn (1874) e viene cantato nel primo atto da una ragazza di nome Gigia, innamorata di un giovane di nome Luisin, che partito in guerra non ha dato più notizie di sé…
A metà canzone si dice:
… vegnuu el sessantases,
la guerra disgraziada!...
hai mi! Mai pù l’hoo vist ahimè!
passà per la contrada!...
On dì piovos, vers sira
s’cioppava del magon;
o me ven ona letterina,
col bord de condizion!
Scriveva la sorella
del pover Luisin,
disend che l’era mort
a fianch del Castellin!...
… arrivato il sessantasei
a guerra sciagurata!...
non l’ho più visto
passar per la contrada!...
Un giorno piovoso, verso sera
scoppiavo dal dolore;
mi arriva una letterina,
era listata di nero!
Scrivava la sorella
del povero Luigino,
diceva che era morto
vicino al Castellino!...
28 Marzo 2016 Oggi, gironzolando su facebook ho trovato questo sketch di Paolo Poli, scomparso da pochi giorni, che mi è parso divertentemente inerente con l'argomento.
Clicca sull'a pellicola dei "Giuli" per vederlo.